Franco Citti, l’uomo che non voleva morire, si è spento ieri all’età di 80 anni, nella sua casa di Fiumicino.
Il protagonista di “Accattone” si guadagnò questo soprannome durante le riprese dell’ultima scena del film d’esordio di Pier Paolo Pasolini, quando il personaggio di “Accattone” agonizzava sul selciato pronunciando le ultime, fatidiche parole: “Mo’ sto bene…”
Quel giorno, a quelle parole Franco Citti ne aggiungeva sempre altre. Mezze parole, mezzi rantoli, mezzi respiri. “Franco non voleva morire mai”, ricordava spesso Pasolini nelle sere d’estate, davanti a una pizza. E Franco rivendicava quel diritto di non morire e di scherzare con la morte “perché il cinema è tutto finto e tutti lo sanno che è finto”.
Franco Citti era un attore formidabile e un uomo di una bellezza struggente.
Quando Accattone percorre con passo dolente il lungo viale sterrato che attraversa la borgata e incrocia con lo sguardo il misero funerale di un disgraziato come lui, il suo volto fa vibrare lo schermo come soltanto Marlon Brando prima di lui era riuscito a fare in “Fronte del porto”. Del resto, l’attore inventato da Pasolini aveva poi conquistato, senza nessuno sforzo, tanti altri registi, come Francis Ford Coppola, Valerio Zurlini, Elio Petri, Bernardo Bertolucci, Franco Giraldi, Citto Maselli, e suo fratello Sergio Citti.
Franco e Sergio Citti sono stati per tutta la vita una sola persona. Tutti li confondevano. Il nome che prevaleva era quello di Sergio, il volto quello di Franco. Entrambi ci avevano fatto l’abitudine, e rispondevano sempre, con stanca pazienza “no, hai sbajato, quello è mi fratello, ma nun importa”. C’era del razzismo in questa confusione, c’era l’idea che quei borgatari scoperti da Pasolini erano inevitabilmente tutti uguali come i negri o i cinesi. Un razzismo a volte odioso, come quello che spinse un giorno un importante critico cinematografico a definirli “pasolinoidi”. Un razzismo più innocente e divertente, altre volte, come quello che suggerì al regista Sergio Corbucci, maniaco dei soprannomi beffardi, di ribattezzare i fratelli Citti “Buzzurri e Grida”, parafrasando il celebre film di Ingmar Bergman “Sussurri e Grida”.
Franco e Sergio hanno convissuto per molti anni come orfani inseparabili in quella casa di Fiumicino costruita dal padre Santino, fino alla morte di Sergio nel 2005. Il destino li aveva uniti per sempre con uno scherzo degno di una novella del Boccaccio. Franco aveva perso l’uso della parola nel 1998 in seguito a un ictus.
Quattro anni dopo Sergio perse l’udito dopo due infarti. Uno poteva solo ascoltare. L’altro poteva solo parlare.
Le ultime parole di Franco non potrò mai dimenticarle perché una sera del 1999 le pronunciò con una rabbia feroce quando era già diventato muto. Fu colpa di Totti che aveva calciato una punizione sulla traversa. Franco si alzò di scatto e lo coprì di improperi rapidissimi e perfettamente articolati. Poi si rimise a sedere come se niente fosse. Io gli saltai addosso urlandogli “Franco, hai parlato! Ti rendi conto? Hai parlato! E hai detto un sacco di cose!”. Lui mi guardò come si guarda uno scemo e mi disse l’unica battuta che fino all’ultimo giorno ha sempre pronunciato: “Babbanculo!”.
Ma ora, davanti al crollo di un altro pezzo di un mondo al quale ho avuto il privilegio di appartenere, l’unica battuta di Franco Citti che resterà per sempre scolpita nella mia memoria è quella che pronunciò il 5 novembre del 1975 quando arrivammo in Piazza Farnese con la bara di Pier Paolo Pasolini e trovammo lì ad aspettarci migliaia e migliaia di romani. In quel momento, Franco si guardò intorno e disse fra i denti: “Allora nun è morto solo un frocio”.
Franco Citti ha vissuto tutta la sua vita da uomo libero. Non ho mai conosciuto un uomo libero come lui. Se ne è sempre infischiato del successo, i soldi non avevano alcun valore per lui, e amava pescare in solitudine più di qualunque altra cosa. Ha sempre trascurato le mogli e le compagne, non si è mai occupato dei suoi tre figli Paolo, Marina e David. Ma tutti non hanno mai smesso di amarlo, e in special modo Paolo lo ha circondato di un affetto che raramente mi è capitato di vedere. Forse perché Franco non ha mai chiesto niente a nessuno, se non di poter essere sempre se stesso.
David Grieco
Roma, 15 gennaio 2016
Il protagonista di “Accattone” si guadagnò questo soprannome durante le riprese dell’ultima scena del film d’esordio di Pier Paolo Pasolini, quando il personaggio di “Accattone” agonizzava sul selciato pronunciando le ultime, fatidiche parole: “Mo’ sto bene…”
Quel giorno, a quelle parole Franco Citti ne aggiungeva sempre altre. Mezze parole, mezzi rantoli, mezzi respiri. “Franco non voleva morire mai”, ricordava spesso Pasolini nelle sere d’estate, davanti a una pizza. E Franco rivendicava quel diritto di non morire e di scherzare con la morte “perché il cinema è tutto finto e tutti lo sanno che è finto”.
Franco Citti era un attore formidabile e un uomo di una bellezza struggente.
Franco e Sergio Citti sono stati per tutta la vita una sola persona. Tutti li confondevano. Il nome che prevaleva era quello di Sergio, il volto quello di Franco. Entrambi ci avevano fatto l’abitudine, e rispondevano sempre, con stanca pazienza “no, hai sbajato, quello è mi fratello, ma nun importa”. C’era del razzismo in questa confusione, c’era l’idea che quei borgatari scoperti da Pasolini erano inevitabilmente tutti uguali come i negri o i cinesi. Un razzismo a volte odioso, come quello che spinse un giorno un importante critico cinematografico a definirli “pasolinoidi”. Un razzismo più innocente e divertente, altre volte, come quello che suggerì al regista Sergio Corbucci, maniaco dei soprannomi beffardi, di ribattezzare i fratelli Citti “Buzzurri e Grida”, parafrasando il celebre film di Ingmar Bergman “Sussurri e Grida”.
Franco e Sergio hanno convissuto per molti anni come orfani inseparabili in quella casa di Fiumicino costruita dal padre Santino, fino alla morte di Sergio nel 2005. Il destino li aveva uniti per sempre con uno scherzo degno di una novella del Boccaccio. Franco aveva perso l’uso della parola nel 1998 in seguito a un ictus.
Le ultime parole di Franco non potrò mai dimenticarle perché una sera del 1999 le pronunciò con una rabbia feroce quando era già diventato muto. Fu colpa di Totti che aveva calciato una punizione sulla traversa. Franco si alzò di scatto e lo coprì di improperi rapidissimi e perfettamente articolati. Poi si rimise a sedere come se niente fosse. Io gli saltai addosso urlandogli “Franco, hai parlato! Ti rendi conto? Hai parlato! E hai detto un sacco di cose!”. Lui mi guardò come si guarda uno scemo e mi disse l’unica battuta che fino all’ultimo giorno ha sempre pronunciato: “Babbanculo!”.
Ma ora, davanti al crollo di un altro pezzo di un mondo al quale ho avuto il privilegio di appartenere, l’unica battuta di Franco Citti che resterà per sempre scolpita nella mia memoria è quella che pronunciò il 5 novembre del 1975 quando arrivammo in Piazza Farnese con la bara di Pier Paolo Pasolini e trovammo lì ad aspettarci migliaia e migliaia di romani. In quel momento, Franco si guardò intorno e disse fra i denti: “Allora nun è morto solo un frocio”.
Franco Citti ha vissuto tutta la sua vita da uomo libero. Non ho mai conosciuto un uomo libero come lui. Se ne è sempre infischiato del successo, i soldi non avevano alcun valore per lui, e amava pescare in solitudine più di qualunque altra cosa. Ha sempre trascurato le mogli e le compagne, non si è mai occupato dei suoi tre figli Paolo, Marina e David. Ma tutti non hanno mai smesso di amarlo, e in special modo Paolo lo ha circondato di un affetto che raramente mi è capitato di vedere. Forse perché Franco non ha mai chiesto niente a nessuno, se non di poter essere sempre se stesso.
David Grieco
Roma, 15 gennaio 2016
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